(di Veronica Marino) – 

In Italia il cinema è già vittima di “un dramma culturale”, poi ci si è messo pure il Covid a dare la mazzata finale. Ed ecco perché serve più che mai “un intervento massiccio dello Stato” con “biglietti agevolati, sovvenzioni per gli esercenti privati, decentralizzazione delle sale come accadeva con i vecchi cinema di quartiere, minore dispersione della distribuzione”, oltre a “prodotti più attrattivi e coraggiosi” e un governo più lungimirante e concreto che prenda più sul serio l’arte. Paolo Ruffini, mentre i suoi documentari ‘Up&Down – Un film normale’ e ‘Resilienza’ si mostrano al pubblico della tv, dell’Arena Adriano Studios e della piattaforma Chili racconta all’Adnkronos come vede la situazione del settore in questo momento, mentre in Parlamento il presidentente dell’Anica Rutelli e dell’Anec Lorini lanciano un allarme senza precedenti per il settore cinematografico e nei giorni in cui sta scalando lui stesso la montagna delle regole sanitarie anti-Covid. 

“Il 14 aprile dovevo iniziare a girare un film che si intitola ‘Rido perché ti amo’ – rivela all’Adnkronos – E ovviamente non è stato possibile. Una commedia romantica diretta da me che ha come protagonista Nicola Nocella, un bravissimo attore candidato ai David di Donatello per il film ‘Easy’ e Daphne Scoccia, una bravissima attrice. Una storia che ora sto risistemando tutta in virtù del protocollo Covid”.  

“Il problema – dice – è arrivare sul set, rispettando tutte le norme che ci sono e che sono giustissime ma ti mettono in condizioni… Beh diciamo che io oggi vorrei fare un film su come poter fare un film. Fare il film è già il film. E’ come il ristoratore che alla fine decide di restare chiuso”. Quali ostacoli ci sono nel concreto? “Bisogna andare a prendere ogni attore con un mezzo ad uso esclusivo. E nei van si possono portare solo due persone. I camerini devono essere singoli e questo significa che se io ho 13 attori, devo avere 13 camper. I truccatori vestiti come quelli che vanno a prendere il miele dalle api. Per preparare ogni attore ci vuole un’ora. A che ora le convochiamo le persone? Alle due di notte? Ora i film li stanno facendo seguendo la legge, ma francamente non so come facciano. E’ come il caso delle discoteche che possono riaprire ma poi si stabilisce che non si può ballare. Il paradosso è che chi legifera sembra non vivere la realtà”, sottolinea sconfortato.  

Detto questo “a settembre è previsto l’inizio delle riprese. Ora lo sto riscrivendo calcolando tutta una serie di cose, come il fatto che negli spazi chiusi l’aria condizionata non si può mettere, che tutti gli attori devono fare il test sierologico, ma anche che se hai 50 comparse non puoi farlo fare a tutte e 50, ragion per cui le comparse devono essere distanziate. Quindi fra sei mesi, quando i film saranno montati – scherza ma non troppo Ruffini – tu vedrai o dei film western dove siamo tutti a distanza e ci spariamo o dei cartoni animati a meno che non vogliano far fare il test sierologico a Tom&Jerry o dei film dove se c’è una piazza non vedrai nessuno a braccetto. Rossellini ha fatto ‘Roma città aperta’ mentre erano in guerra. Noi non siamo capaci di fare un film post Covid. La nostra civiltà invece di trovare delle soluzioni, trova dei problemi. Noi siamo un popolo che ha un governo che ha un problema ad ogni soluzione”. 

Tornando alla situazione del cinema, fa notare Ruffini, “ci sono fonici che a 50 anni sono diventati baristi, macchinisti che si sono reinventati cassieri al supermercato. Non è giusto – scandisce l’attore e regista – C’è un problema culturale. La cultura in questo Paese è sempre stata considerata un dettaglio. Questo è stato esemplificato dal premier Conte quando ha detto ‘I nostri artisti che tanto ci fanno divertire’. Ma come? Bellocchio ha vinto sei David di Donatello con ‘Il Traditore’. Ma non è un film divertente. E’ un film importante”. Non solo. Anche sul fronte normativo “sarebbero state necessarie regole immediate. I film andavano fatti durante il Covid. Il protocollo che c’è ora doveva uscire al massimo dopo una settimana e mezzo. Poi va bene, in America fanno ‘Beautiful’ con le bambole. Ma di che parliamo? Se dobbiamo sempre paragonarci con il ridicolo, allora noi siamo competitivi, ma se dobbiamo paragonarci con la civiltà e con il nostro passato, e mi riferisco a Rossellini, De Sica, Visconti che hanno lavorato davvero in un ‘dopo guerra’, allora dico diamoci da fare a produrre materiale per fare in modo che anche quest’estate il pubblico italiano abbia un’alternativa ad andare sulla spiaggia e che la sera sia intrattenuto in qualche modo. A chi riesce a produrre oggi, dico, ‘chapeau'”.  

Una possibile via d’uscita? “Per prima cosa invito ad una riflessione generale che sta a monte di tutto. In una fase come questa rendiamoci conto che il protocollo Covid è sì un grande avversario nella realizzazione di un film, ma almeno è giusto e condivisibile. Molto meno giusto e condivisibile, ma quasi altrettanto limitativo è il politicamente corretto che fa quasi più danni nella realizzazione di un film e nell’ambito culturale. Oggi, per esempio, non sarebbe possibile produrre film come ‘Ultimo tango a Parigi’ di Bertolucci, anzi lo brucerebbero prima che si possa vedere. Ma anche un film di Fellini oggi scatenerebbe polemiche. Fellini era un uomo ossessionato dalle donne, un narcisista ma anche un grande antropologo: la scena in cui Marcello Mastroianni con la frusta sistema le donne sarebbe un disastro. Insomma mi sembra il momento giusto per uscire dall’appiattimento del nostro sguardo sulla licenziosità e della risata. Siamo diventati un popolo di offesi. Ci sono tante persone che la mattina si svegliano e non pensano, come un tempo, a come star bene e divertirsi, ma pensano a come fare polemica. E così passano tutto il tempo a indignarsi sui social, rovistando nel torbido e cercando un motivo per attaccare qualcuno, mentre l’indignazione è bella quando è reale, sincera e di spessore”.  

“Poi credo – argomenta Ruffini – che la cosa più importante da far capire al pubblico sia che il cinema è prima un’arte, poi un mercato e soprattutto un posto. Se non si capisce che il cinema è un posto e che vale la pena uscire di casa, prendere l’auto, parcheggiare e andare a vivere il racconto di un’emozione in un posto nel quale si può scambiare anche convivialmente dei pareri con qualcun altro, allora le cose non andranno che a peggiorare. Quando oggi si dice a qualcuno che è uscito un nuovo film, non si pensa più al fatto che sia uscito al cinema e questo è un grave problema”. E quindi? “Quindi ai distributori dico bene la pluralità di mercato, ma occhio alla dispersione perché le offerte si sono sestuplicate ma il pubblico è sempre lo stesso ed anzi si riduce”. Mentre a governo e Parlamento, dice, che “è necessario far comprendere alla gente che la piattaforma più fica del mondo è il cinema”.  

E come si fa? “Con i biglietti agevolati e interventi pubblici massicci come accade in Francia dove la gente va tantissimo a vedere il prodotto francese. E sotto questo punto di vista chiamo in causa anche noi stessi, me compreso. Offriamo prodotti meno seduttivi rispetto a quelli americani. La gente, invece, deve poter iniziare a pensare che il film italiano è fico tanto quanto il film americano. E noi dobbiamo cominciare a mandare in sala dei prodotti che siano seduttivi e non troppo elitari. Il pubblico ha bisogno di storie più larghe e meno autoreferenziali. Un made in Italy che sia ben fatto e che sia più attrattivo dal punto di vista della narrazione e che non ci faccia provare sempre il complesso di inferiorità nei confronti di commedie, non solo americane ma anche europee. Se io fossi andato da un produttore americano e avessi detto di voler fare una storia su un paraplegico che cerca un badante, che però è nero, mi avrebbero sputato in faccia. ‘Quasi amici’ è un film che avremmo potuto fare serenamente anche noi, ma a volte non c’è il coraggio del rischio rispetto alla narrativa e alla drammaturgia”!. 

“Dobbiamo avere un sistema produttivo molto più attraente, uno Stato che dia risorse nel senso proprio che devono piovere dei denari altrimenti è un vero casino – insiste Ruffini – Allo stesso tempo bisogna essere meno complessati sulla nostra posizione. La cultura è lo 0,0001% della Sanità. Ma un paese senza cultura non è più capace di votare, di vivere, di sostenere la pandemia. Pandemia che senza libri, film e tv ci aveva ancora più messo alla prova visto che siamo stati chiusi in casa. Ecco, ci si renda conto, quindi, che l’Italia deve investire più sulla cultura che, tra l’altro, rende anche in termini economici allo Stato qualcosa di più dell’1% di Pil. Percentuale che potrebbe aumentare se, naturalmente, aumentasse la quantità di risorse investita”.  

“Non è che la gente non vada più ai concerti, non compri un libro, non vada al cinema, semplicemente – osserva Ruffini – è diventata più selettiva, più esigente e in un certo senso se la tira un po’ di più rispetto a prima, avendo dalla sua il commento sui social. Ora ci sono 60milioni di critici cinematografici, come accade nel calcio con gli allenatori. Ed è aumentata anche la quantità dell’offerta e questo significa più lavoro per tutti ma bisogna migliorare il prodotto, rimarcando l’importanza del cinema come posto e dando sovvenzioni agli esercenti, soprattutto ai privati che in questo periodo non stanno aprendo le sale. Attualmente sono aperte le sale d’essai. Io in questo momento sono a Milano e qui sono aperte solo le sale d’essai, mentre i privati che hanno il prodotto commerciale non trovano il prodotto perché, se c’è, esce sulle piattaforme. E questo perché si sceglie di non far uscire un film al cinema essendo aperta una percentuale minima di cinema. Insomma si è creata una schizofrenia di fondo. Ora non c’è una nave senza comandante, ma direi una nave senza timone”. 

‘Up&Down’, nato dalla collaborazione tra Ruffini e gli attori con disabilità della Compagnia Mayor Von Frinzius, è stato un indiscusso successo teatrale con 150 date nei più prestigiosi teatri d’Italia e ora è divenuto un docufilm disponibile su Chili, oltre ad essere in visione nell’Arena Adriano Studios, mentre ‘Resilienza’, ispirato alla storia vera di Alessandro, mancato a soli 14 anni per una grave forma tumorale, è andato in onda su Italia 1 ed ora è anche su Chili dopo essere stato tra i finalisti del Premio David di Donatello. Che scelta c’è dietro? E che valore aggiunto ha dato il cinema a due temi così delicati? “Il nodo del cinema è la distribuzione di quello che fai. Per produrre si riescono a trovare i fondi e il tax credit in questo senso sta dando una mano. Ma il problema del ‘far vedere’ resta perché c’è dispersione e perché mancano gli scaffali dedicati ai prodotti. Per esempio una cosa bellissima che fanno nelle piattaforme è la sezione ‘documentari’, ma manca la possibilità di pensare ad uno scaffale raggiungibile perché chi fa documentari fa fatica a trovare l’interlocutore giusto e l’intercapedine per poterlo inserire. ‘Resilienza’, ecco il paradosso, non ha avuto alcuna distribuzione nella filiera cinematografica ed è stato invece trasmesso da Italia1”.  

“Quanto al valore aggiunto dato dal cinema ai temi affrontati nei miei documentari dico solo che per me il cinema è quasi una persona – confida Ruffini – Quando sono andato al funerale di Alessandro, i genitori (che sono miei amici) mi hanno chiesto di aiutarli a tenere vivo Alessandro. E il cinema è stata la soluzione. Ieri mi sentivo solo e ho rivisto ‘Leon’. E’ come il cinema fosse qualcuno che arriva da me e mi racconta delle cose. Il cinema poi è come Roma. E’ talmente bella che bisogna davvero impegnarsi molto per rovinarla, magari ce la stanno facendo. Ma bisogna essere proprio bravi perché il cinema possa essere macchiato da colori politici, contaminazioni, paletti, censure, perché di per sé è un’invenzione eccezionale: racconta, intrattiene, comunica, divulga, condensa tutte le arti. E questo è proprio il valore che il documentario mi ha dato. Anche ‘Up&Down’ fa capire che il cinema è una occasione sociale in quanto posto e in quanto mezzo perché attraverso questo docufilm posso imparare e conoscere”, per esempio, come i down siano davvero “liberi di essere se stessi. Noi viviamo pieni di filtri, accettando compromessi continui. La loro vita, invece – sorride il regista – è molto più vita, non hanno bisogno di mediare e hanno ragione loro. Chi ha la sindrome di down ha una confidenza con la vita che io non ho. Ed è una cosa congenita che esiste in natura. Non c’è diverso come non c’è normale. Esiste un tramonto normale? Ecco cosa ho imparato da loro: accettarsi in maniera scatenata, senza remore”. E tutto questo con Paolo Ruffini è entrato nel cinema e quindi un po’ nell’eternità: “Io non so se tra 100 anni ci sarà ancora ‘Tik Tok’ ma cinema, librerie e teatri ci saranno. Non a caso Truffaut diceva ‘il cinema è una notizia che non finisce mai’”.