Per le malattie infiammatorie croniche dell’intestino (Mici), con cui convivono almeno 200mila italiani soprattutto in età giovanile, “negli ultimi 20 anni sono stati sviluppati farmaci che hanno avuto un impatto molto positivo sulla gestione di patologie quali la rettocolite ulcerosa, la malattia di Crohn oltre ad alcuni casi di colite per i quali è difficile ottenere una diagnosi precisa e per questo definite ‘coliti indeterminate’. Si tratta dei farmaci biologici che, bloccando una o più molecole infiammatorie o immunoeccitatorie, spengono efficacemente la infiammazione anche nelle malattie più resistenti”. Lo afferma Maurizio Vecchi, professore ordinario di Gastroenterologia e responsabile Unità di Gastroenterologia ed Endoscopia Fondazione Irccs Ca ‘Granda ospedale Maggiore Policlinico università degli Studi di Milano. 

“Le terapie disponibili – spiega all’Adnkronos Salute – sono basate sull’azione antinfiammatoria o di regolazione del sistema immune esercitate a livello locale o sistemico”. Tra queste molecole, afferma il gastroenterologo della Società italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva (Sige), “sono state molto importanti in passato e tuttora rivestono un ruolo significativo la mesalazina, i cortisonici, l’azatioprina. Possiamo quindi sostenere che sono stati compiuti molti passi avanti nella gestione medica delle Mici, tuttavia in alcuni pazienti le opzioni chirurgiche rivestono ancora un’importanza fondamentale”. 

Le MiciI sono infiammazioni che interessano vari tratti dell’apparato digerente (il colon nella colite ulcerosa, potenzialmente tutti i tratti dell’apparato digerente nella malattia di Crohn), che compaiono improvvisamente in maniera più o meno acuta o subdola. “Colpiscono a tutte le età – sottolinea Vecchi – ma in genere insorgono nel giovane adulto, senza preferenze di genere. Poiché non ne conosciamo la causa, e perciò non è disponibile una terapia definitiva, le malattie hanno un andamento cronico, con alternanza tra periodi con sintomi più o meno intensi e periodi anche di completo benessere, e accompagnano il paziente per tutta la sua esistenza. Tali patologie hanno un impatto importante su chi ne è affetto, ne condizionano la vita dal punto di vista lavorativo, sociale, sessuale e psicologico”. 

Dolori addominali, diarrea, perdita di sangue dal colon retto sono i sintomi principali delle Mici. “Nelle forme più gravi – spiega Vecchi – ci possono essere anche febbre, disidratazione, anemia. In generale, le forme acute lievi possono essere gestite a livello ambulatoriale mentre le forme con acuzie più grave necessitano di ricovero ospedaliero per effettuare terapie impegnative, endovenose, per riequilibrare le alterazioni che possano essersi instaurate (anemie gravi, disidratazione, squilibri degli elettroliti) e per un attento monitoraggio della risposta alla terapia medica”. In mancanza di questa, infatti, “può essere necessario il ricorso ad una chirurgia talora anche in urgenza – ancora Vecchi -. In assenza di un marcatore diagnostico specifico, la diagnosi si ottiene da un insieme di dati che convergono verso l’identificazione della data malattia”.  

Pertanto, per giungere ad una diagnosi, oltre alla raccolta di un’attenta storia del paziente e ad una sua visita approfondita, sono necessari esami di laboratorio, radiologici ed ecografici, ma certamente “gli esami endoscopici – sottolinea il gastroenterologo – corroborati dai dati istologici delle biopsie, sono di gran lunga i più efficaci nella grande maggioranza dei pazienti. In particolare, poiché il 90% delle malattie di Crohn colpisce il colon o l’ultimo tratto del piccolo intestino e la colite ulcerosa il colon, una colonscopia con visualizzazione dell’ileo terminale è l’esame diagnostico per eccellenza”.  

Le cause di questo insieme di patologie sono al momento sconosciute. “È probabile il ruolo di una complessa predisposizione genetica – spiega Vecchi – alla base di una alterazione immunitaria intestinale che condiziona una risposta eccessiva al microbiota intestinale. Su quest’ultimo argomento si è ultimamente concentrata l’attenzione di molte ricerche che potrebbero portare a importanti innovazioni terapeutiche”. Tra i fattori di rischio “il fumo di sigaretta – avverte il gastroenterologo della Sige – facilita la comparsa (e anche un andamento più aggressivo) della malattia di Crohn. Al contrario, i soggetti che non hanno mai fumato o che hanno smesso da poco di fumare sono predisposti allo sviluppo della colite ulcerosa. Quindi non abbiamo davvero modo di fare prevenzione, se non consigliando a tutte le persone una vita sana, i cui pilastri sono: alimentazione corretta e bilanciata, attività fisica e niente fumo”.