(Adnkronos) – Camminando in un giorno qualunque in un reparto che si occupa di sclerosi multipla, si possono incontrare diverse donne giovani che stanno facendo le loro terapie. Focalizzando l’attenzione, è possibile scoprire che alcune di loro hanno il pancione. C’è anche chi è già mamma ed è in attesa di un secondo bebè. “C’è chi ne ha avuti anche 3 o 4. Ormai divento ‘zia’ di un sacco di bambini, le loro mamme mi mandano le foto. E’ un bel tema ed è importante parlarne fin da subito con le pazienti”, racconta all’Adnkronos Salute Lucia Moiola, neurologa del Centro sclerosi multipla dell’Irccs ospedale San Raffaele di Milano. Perché diventare mamma, anche quando una diagnosi di sclerosi multipla irrompe nella propria vita di giovani donne, si può.  

“Dovrei raccoglierlo, questo registro di gravidanze – osserva la specialista – perché abbiamo davvero tante pazienti che hanno avuto questa esperienza. Oggi a ricevere una diagnosi di sclerosi multipla sono spessissimo giovani colpite nel pieno della vita sociale, lavorativa, affettiva e di pianificazione familiare. E devono poter avere un’esistenza a tutto tondo. Viaggiare, laurearsi, avere un lavoro, farsi una famiglia. Vent’anni fa, se una donna con sclerosi multipla diceva di volere un figlio, i medici le rispondevano: ‘No, rischi di finire su una sedia a rotelle’. Oggi non è così. Ci sono stati tanti studi che hanno dimostrato come il rischio di ricaduta nel post gravidanza sia solo nel 30% delle donne e solo nei 3 mesi successivi. Quindi un rischio molto basso. Anzi, si è visto che la gravidanza è quasi protettiva: proprio per un discorso ormonale, c’è un minor rischio di avere ricadute. E quindi si è diventati più fiduciosi”. 

Con le ragazze giovani, che “sono sempre di più, considerato che le donne sono colpite dalla malattia 3 volte più degli uomini, affrontiamo il discorso del progetto di gravidanza non dico alla prima seduta, ma alla seconda. Il mio messaggio”, a pochi giorni dalla Giornata mondiale della sclerosi multipla che si tiene il 30 maggio, “è che l’argomento va affrontato subito perché può condizionare molto la scelta terapeutica – dice Moiola – Fa parte degli elementi che si considerano nell’ottica di una sempre maggiore personalizzazione della terapia. Si possono scegliere farmaci diversi a seconda se si ha un progetto immediato” di genitorialità “oppure no. Alla paziente diciamo ovviamente che ci vuole minimo un anno con la malattia stabile, senza ricadute, peggioramenti e nuove lesioni alla risonanza. E’ il minimo che chiediamo. Poi si può fare. Noi medici siamo molto propositivi. Qui abbiamo fatto anche un Punto rosa dove le donne possono parlare proprio di questi temi, dalla maternità all’allattamento”.  

Del resto, continua la neurologa, “la sclerosi multipla è una malattia che viene fra i 18 e i 40 anni. E considerata l’incidenza al femminile, è praticamente una malattia di genere. Quindi serve parlarne, anche perché ancora oggi ci sono tante gravidanze che avvengono in modo non programmato fra le pazienti. Invece pianificarle è importante. Puoi avere un bimbo, ma programmiamo insieme il percorso, è il messaggio. Oggi abbiamo molte strategie per farlo. E il consiglio è di parlarne anche se non c’è una progettualità nell’immediato, anche se non c’è ancora un fidanzato e tante pensano: ho la malattia, non lo farò mai. Queste donne vanno rassicurate rispetto alle loro paure, per esempio sul fatto che non è una malattia genetica, che i casi familiari sono rari”.  

Un aspetto che ha colpito Moiola è che “ci sono delle donne che vogliono a tutti i costi avere figli, anche in presenza di un certo grado di disabilità. In questi casi c’è ovviamente un maggior rischio – osserva – però penso che bisogna rispettare la volontà della paziente, purché sia informata con trasparenza. Una mia carissima paziente ha avuto un esordio infantile di sclerosi multipla a 12 anni, quando c’erano ancora poche terapie altamente efficaci, e ha accumulato un po’ di disabilità. E’ poi rimasta incinta quando non si sapeva che il farmaco che assumeva poteva essere continuato in gravidanza e quindi ha avuto una significativa riattivazione della malattia: se prima camminava male, dopo ha dovuto usare due bastoni di appoggio. Ma lei mi dice sempre: ‘Se tornassi indietro farei sempre la stessa scelta, perché mio figlio è la mia vita, la mia gioia’”.  

Oggi è cambiato molto rispetto al passato. “Sulle terapie a bassa e moderata efficacia, che sono i vecchi iniettivi come interferone e glatiramer acetato – ricorda la specialista – ci sono tantissimi dati e adesso si sa che possono essere continuati in gravidanza, e addirittura anche durante l’allattamento. Anche se questi farmaci sono adesso meno prescritti. E soprattutto i giovani preferiscono terapie orali. Su quest’altro fronte c’è un farmaco orale, il dimetilfumarato, che si prende 2 volte al giorno e si può sospendere serenamente al momento del riscontro di gravidanza, perché si è visto che non aumenta né il tasso di aborto né il tasso di anomalie fetali rispetto alla popolazione generale. Un altro farmaco di prima linea va invece sospeso prima e va fatta una resina che lo toglie dal circolo, ma una gravidanza si può pianificare anche in questo caso”. 

Qualche problema in più si ha con i farmaci ad alta efficacia, “perché ce ne sono alcuni che vanno sospesi. Ma altri possono essere proseguiti. Quello di cui abbiamo più dati – precisa la neurologa – è natalizumab: le donne possono proseguire questa terapia infusionale fino alla 30-32esima settimana di gravidanza. La donna rimane così coperta dagli effetti e appena partorito riprende la sua terapia”. Ci sono anche altre terapie ad alta efficacia che permettono di gestire una gravidanza: “Abbiamo – illustra Moiola – una terapia pulsata che si fa in un tot di compresse il primo anno e un tot all’inizio del secondo. E si sa dunque che 20 mesi dopo l’assunzione della prima compressa la paziente sarà libera di iniziare la gravidanza. Si chiama cladribina. E’ molto importante avere opzioni simili, se si hanno pazienti di 25-27 anni che hanno un progetto di maternità non nell’immediato”.  

C’è anche un’altra terapia pulsata, “un farmaco endovena di nome alemtuzumab che si fa l’anno 1 e l’anno 2 e permette alla donna di sapere che può avviare il percorso di gravidanza 16 mesi dopo la prima infusione. Anche quindi con malattie molto attive possiamo ottenere una buona gestione. E poi adesso siamo in grado anche di fare una terapia ponte con farmaci come natalizumab e poi permettere alle donne di tornare alla loro terapia precedente dopo il parto. E’ solo importante sapere esattamente cosa fare”, insiste Moiola. Oggi il risultato è che “abbiamo un sacco di gravidanze fra le pazienti. Stiamo facendo tanta campagna e il concetto sta passando. Alcune vengono ancora prevenute, ma sempre di più sono quelle informate”.  

C’è ormai questa sensibilità fra i neurologi, senza differenze fra Nord e Sud del Paese, almeno nei centri grossi. E stiamo facendo anche tanta attività di sensibilizzazione perché arrivi nei centri più piccoli. Facciamo rete e questo aiuta. Il Covid ha dato una spinta ulteriore in questa direzione”. E la pandemia non ha fermato i progetti di gravidanza delle donne con sclerosi multipla. “Abbiamo avuto anche pazienti col Covid che hanno fatto la loro gravidanza ed è andata bene. Bisogna fare colloqui anche con i partner, essere sereni nel vivere questo aspetto nella normalità. La gravidanza nella sclerosi multipla non è una gravidanza patologica – puntualizza l’esperta – C’è ancora il retaggio che l’anestesia spinale o epidurale aumenti il rischio di ricaduta, ma è stato ampiamente smentito, anche se fatica a passare questo concetto”. Il parto? “Può assolutamente essere naturale e l’indicazione è questa, anche se oggi continua ad esserci ancora un eccesso di cesarei”.