(Adnkronos) – “Ricordo i viaggi sull’autostrada del Sole deserta, da solo, con la mia auto di servizio e i lampeggianti. Questa è stata davvero la cosa più straniante. E a un certo punto la paura. La paura di contagiarsi, perché quello che per tutti era un momento di isolamento per me era invece un periodo di frenesia e di contatti. Sembrava dovesse essere una guerra lampo e invece è diventata una guerra di trincea con tutti gli effetti pesanti della guerra di trincea”. Così il virologo Fabrizio Pregliasco, docente all’Università Statale di Milano e presidente dell’Anps, tra le maggiori associazioni di volontariato in campo sanitario, affida all’Adnkronos Salute i suoi ricordi a due anni dallo scoppio della pandemia di Covid-19 in Italia. 

“Era il 13 febbraio 2020”, una settimana prima che venisse individuato il primo caso di Covid a Codogno, “quando proprio qui nel mio studio – racconta il virologo – ci eravamo riuniti per fare il punto sull’operatività a livello ospedaliero e avevamo fatto un censimento dei materiali. Ne avevamo ancora un po’ dall’ultimo rischio Ebola che si era prospettato e – dice con un sorriso – pensavamo ‘sì dai abbiamo un migliaio di tute, abbiamo le mascherine. Ci siamo’. Tutte cose che poi ci sono bastate per una settimana. Questo è stato”, afferma tornando serio. E “ricordo nelle onde della pandemia le onde delle angosce e delle discussioni sui vari temi che dalla carenza di mascherine ai vaccini si sono susseguiti. Quanto stress”.  

“All’inizio ci applaudivano dai balconi quando con le tute si andavano a prendere i pazienti ma poi – dice il medico – quando c’è stata la riapertura davamo fastidio perché essere vicino di scrivania di chi poteva essere stato infettato e quindi infettare ha creato problemi. Molti colleghi – racconta – hanno dovuto mollare e smettere di fare per un po’ servizio. E’ quello che succede nella guerra di trincea: dall’emozione e dall’adrenalina dell’immediato si passa al logoramento e alla solitudine del soldato. Oggi per me ma anche per i miei collaboratori, per gli operatori che ancora oggi sono nel reparto Covid, c’è un elemento di fatica, di stress, di repulsione quasi”. Tra i volontari “alcuni si sono esauriti, allontanati, c’è difficoltà a continuare nell’operatività”.  

Ma “spero – è l’auspicio di Pregliasco – che questa transizione verso la normalità ci riporti a un rasserenamento e soprattutto a una pacificazione, perché – rileva – quel che vedo, seppure in una parte minoritaria di persone, è proprio un contrasto. Per me che mi sono impegnato anche nella divulgazione scientifica la definizione di ‘viro-star’, che è svilente e negativa, è significativa. Non ne siamo usciti migliori – afferma amaro – ma è una reazione che io vedo legata a questa guerra di trincea che in qualche modo purtroppo non possiamo abbandonare”.  

Pregliasco però non ha perso la passione per il suo lavoro. “All’inizio – ammette – non immaginavo che sarebbe stata una cosa così enorme e lunga ma io da 30 anni studio, approfondisco e mi occupo di epidemiologia, di virus respiratori e mi sentivo un po’ come il sottotenente Drogo del Deserto dei Tartari: una vita di attesa e preparazione alla battaglia”. Quindi l’arrivo della pandemia in un certo senso “a me ha dato una maggiore carica”. Però “mi manca il tempo” e quando tutto sarà finito “vorrei tornare a passare un po’ di tempo insieme alla mia compagna Carolina”.